I Big Data e il loro valore per l’azienda

Big Data

In ogni occasione in cui un utente, attraverso un qualsiasi device (personal computer, smartphone, tablet, ecc.), si connette ad internet per navigare, la sua presenza on-line, le sue scelte, le sue preferenze e, in generale, ogni suo comportamento, viene registrato attraverso dei dati. Se considera il numero di utenti che, ogni giorno, sfruttano la rete e il costante sviluppo tecnologico, va da sé che il numero di dati circolanti cresce in modo vertiginoso. In tale contesto si è sviluppato il concetto di Big Data, ovvero di “grande massa di dati”.

Le caratteristiche dei Big Data

Le definizioni che sono state proposte rivelano tutte le caratteristiche dei Big data e gli elementi che li distinguono da altre grandi quantità di dati, ovvero, stando alla teoria delle c.d. delle tre “V” (oggi delle cinque “V” o anche sette)[1]:

  • il volume: i Big data si caratterizzano per essere costituiti da una gigantesca mole di informazioni in costante crescita. Il volume, inoltre, come la velocita (di cui meglio infra) è tale da non essere gestibile con le normali tecnologie, ma richiede lo sviluppo di sistemi computazionali sviluppati appositamente.  
  • la velocità: l’origine, la nascita e l’acquisizione dei dati avviene in modo estremamente rapido. Alla quantità di volume, rectius a sistemi in grado di gestire enormi volumi di dati, si devono accompagnare sistemi di produzione, trattamento e analisi estremamente veloci e affidabili.
  • la varietà: la caratteristica della varietà si riferisce alle diverse tipologie di dati disponibili (dati di testo, foto, video, documenti), che devono provenire da fonti eterogenee e numerose, ma anche alla varietà di fonti (social network, siti web, open data),

nonché,

  • la veridicità: i Big data, per essere tali, devono essere affidabili e, dunque, le fonti devono essere attendibili. La qualità e l’integrità delle informazioni è fondamentale per chi su di essi deve fondare scelte strategiche (si è soliti affermare, invero, “Bad data is worse than no data”).
  • il valore: per potersi considerare tali, i Big data devono poter essere convertiti in informazioni preziose e strategiche per le imprese. Va da sé che per farlo sono necessari strumenti di analisi ad hoc non sempre accessibili a tutte le imprese.

L’aspetto del “valore”, rectius della capacità di generare valore dopo essere stati “lavorati”, è certamente, quello che si rivela più interessante dal punto di vista giuridico-commerciale per un’azienda.

L’elaborazione dei Big data

Siano essi generati automaticamente dagli elaboratori elettronici o generati dalle persone che sfruttano la rete internet, tale mole gigantesca di dati costituisce un bene giuridico di valore inestimabile e, non a caso, al centro degli interessi delle aziende che intendono sviluppare nuovi modelli di business.

Invero, l’elaborazione dei Big data, se correttamente eseguita, può essere sfruttata per diverse finalità:

  • per sviluppare o personalizzare nuovi prodotti;
  • creare nuovi servizi di cura della persona;
  • addestrare macchine intelligenti dotate di intelligenza artificiale;
  • prevenire illeciti e gestire la sicurezza di cose e persone,

Dunque, avere la possibilità di raccogliere ed elaborare Big data o averne la proprietà oggi non è molto diverso dall’essere proprietari di un (anche piccolo) giacimento petrolifero.

La questione della tutela giuridica

Come asset dell’impresa in grado di produrre utilità economica anche i Big data dovrebbero ricevere una loro tutela giuridica, tutela che, tuttavia, ad oggi non è adeguata e costituisce la ragione per la quale le aziende sono restie a vendere i “big data” dalle stesse raccolte.

I Big data non possono ricevere la tutela prevista dalla Legge n. 633 del 1941 sul diritto d’autore e, segnatamente, dalle norme che riguardano le banche di dati, né una protezione sufficiente dal diritto industriale.

Se è vero, infatti, che i Big data sono un insieme di dati organizzati è altrettanto vero che la loro distribuzione non è qualificabile né come “sistematica”, né come “metodica”, requisiti richiesti dalla legge affinchè una “raccolta di opere, dati o altri elementi” possa essere qualificata come banca di dati ai sensi dell’art. 2 n. 9 della Legge sul diritto d’autore.

I Big data del resto sono raccolti in modo automatico da una macchina (e non da una persona fisica, qualificabile come autore), senza alcuna applicazione di criteri di selezione e senza alcun tipo di ragionamento logico sottostante, ragione per la quale anche il requisito della creatività deve considerarsi deficitante[2].

Il diritto del costitutore

Per tale ragione si è ipotizzata una tutela dei Big data attraverso il diritto sui generis del costitutore della banca di dati che, infatti, tutela il “prodotto” Big data in quanto tale e, quindi, anche le banche di dati prive di creatività ai sensi dell’art. 2 n. 9 L.d.A.

Il diritto del costitutore, ovvero di colui che, ex 102 bis, co. 1, lett. a) L.d.A., “effettua investimenti rilevanti per la costituzione della banca dati o per la sua presentazione impiegando, a tal fine, mezzi finanziari, tempo e lavoro”, il diritto di vietare le operazioni di cui ex 102 bis L.d.A., co. 1, lett. b) e c) e, segnatamente, di “estrazione”, ovvero di “trasferimento permanente o temporaneo della totalità o di una parte sostanziale del contenuto della banca dati su un altro supporto con qualsiasi mezzo o in qualsivoglia forma”, e di “reimpiego”, ovvero “qualsivoglia forma di messa a disposizione del pubblico della totalità o di una parte sostanziale del contenuto della banca di dati mediante distribuzione di copie, noleggio, trasmissione effettuata con qualsiasi mezzo e in qualsiasi forma.”.  

Tuttavia, anche il diritto del costitutore non risulta facilmente applicabile e, comunque, idoneo ad assicurare una protezione adeguata ai Big data aziendali posto che essi sono generati in modo incidentale e che l’attività di raccolta degli stessi è il prodotto di un’operazione automatica, eseguita da una macchina, e non oggetto di un investimento economico rilevante.

Le norme a tutela del segreto industriale

Per quanto concerne, invece, la protezione offerta dal diritto industriale e, segnatamente, dalle norme che disciplinano il segreto industriale (artt. 98 e 99 del CPI), anche in tal caso si evidenziano difficoltà applicative.

L’articolo 98 stabilisce che per segreto industriale devono intendono “le informazioni aziendali e le esperienze tecnico-industriali, comprese quelle commerciali, soggette al legittimo controllo del detentore” che siano segrete, abbiano un valore economico e siano sottoposte, da parte delle persone al cui legittimo controllo sono soggette, a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete.

Apparentemente, la norma sembra rispondere perfettamente all’esigenza di tutela dei Big data aziendali. Invero, in ambito aziendale tutti i requisiti stabiliti perché vi sia una protezione della legge possono essere facilmente soddisfatti.

Tuttavia, i Big data, per essere tali, non possono essere frutto solo dell’elaborazione di dati (interni) aziendali, ma devono comprendere anche quelli che derivano dall’esterno, quali quelli che gli utenti forniscono quando navigano o si avvalgono di un servizio. Per tale ragione non si ritiene applicabile la disciplina del segreto industriale che potrebbe essere sfruttata solo qualora i Big Data fossero raccolti e archiviati nell’ambito dell’attività dell’azienda.